Tutti i giochi implicano un conflitto

Il brano che segue è una traduzione amatoriale di alcuni estratti di Rules of Play: Game Design Fundamentals di Eric Zimmerman e Katie Salen*. Le uniche modifiche apportate sono quelle necessarie a dare un senso di unitarietà al testo.

Il conflitto è un elemento intrinseco di ogni gioco.
Al di fuori di un gioco, il conflitto può essere qualcosa di distruttivo, ma nei giochi assistiamo al meraviglioso paradosso di un conflitto simulato che genera gioco significativo.
Secondo Chris Crawford, in The Art of Computer Game Design:

in un gioco, il conflitto sorge spontaneamente dalle interazioni. Il giocatore sta cercando attivamente di raggiungere un qualche obiettivo. Alcuni ostacoli gli impediscono di raggiungerlo facilmente. Il conflitto può essere diretto o indiretto, violento o no, ma è sempre presente in tutti i giochi.

La lotta fra giocatori per raggiungere l’obiettivo del gioco e vincere è un’attività competitiva che porta avanti il sistema di conflitto del gioco. Il fatto che questa attività sia una lotta deriva dalla sfida intrinseca presentata dal conflitto. Come sappiamo, i giochi sono costruiti in modo che i loro obiettivi siano difficili da raggiungere. Il conflitto di un gioco sorge quando i giocatori fanno fatica a raggiungere l’obiettivo. Talvolta i giocatori saranno in opposizione l’uno con l’altro e altre invece lotteranno insieme o in parallelo.

Che forme assume il conflitto nei giochi? Possiamo innanzi tutto parlare di competizione e cooperazione.
La competizione si verifica quando i giocatori lottano l’uno contro l’altro all’interno del sistema artificiale di conflitto. Forse il più limpido modello di competizione viene dalla teoria dei giochi: il gioco a somma zero. In un gioco a somma zero, la vittoria di un giocatore equivale alla perdita di un altro giocatore. La vittoria è sempre equamente bilanciata da una sconfitta.

Monaci Shinto che giocano a Go

Una critica comune che si leva è che la competizione sia in qualche modo non desiderabile, se non proprio da evitare per assicurare un’esperienza di gioco positiva.
Bernard DeKoven, game designer e autore di The Well-Played Game, esprime eloquentemente la propria posizione in proposito:

Adesso mi è chiaro che giocare per vincere genera un senso di separatezza. Ci divide in vincitori e perdenti, quelli che hanno avuto successo e quelli che hanno fallito. Questa separazione ci conduce ad altre forme di divisione. Diventa difficile, ora che alcuni di noi hanno vinto e alcuni altri hanno perso, trovare un gioco che vogliamo giocare tutti insieme. Ciò che ci stava più a cuore era giocare insieme, ma vincere ha avuto la precedenza su tutto il resto.

Il punto di DeKoven è che quando vincere o perdere una competizione entra nel sistema di conflitto del gioco, questa diventa una preoccupazione prioritaria dei partecipanti, eclissando tutto il resto che il gioco ha da offrire.
Con tutto il rispetto, non siamo d’accordo.
Ci sembra abbastanza chiaro che i giochi competitivi possono offrire genuinamente esperienze significative. A volte il significato può germogliare dalla gioia del gioco in quanto tale, ma è certo che molto del significato derivi dalla fatica competitiva del gioco, dal provare a diventare un vincitore evitando le sconfitte.

Lo sforzo competitivo verso un obiettivo è fondamentale per dare forma alla struttura del gioco e fare in modo che il gioco possa creare un proprio significato. Ad esempio, l’idea che le azioni di un giocatore siano integrate in un contesto più ampio dipende dalla natura competitiva del gioco. Senza un obiettivo verso cui i giocatori possano tendere, è molto difficile per un giocatore misurare il proprio progresso nel sistema. Senza una misura del progresso che dia al giocatore un feedback sull’importanza delle sue decisioni, non è possibile giocare in maniera significativa. In questo scenario, non c’è nulla che spinga i giocatori a muoversi in questo modo invece che in quell’altro.
Diventa del tutto impossibile giocare in maniera rilevante.

La nostra opinione è che tutti i giochi siano competitivi.
Tutti i giochi implicano un conflitto, sia che il conflitto coinvolga direttamente i giocatori, sia nel caso i giocatori lavorino insieme contro una qualche sfida presentata dal sistema di gioco. Senza un obiettivo ben definito, i giochi generalmente diventano attività ludiche meno formalizzate.
Tuttavia, solo perché tutti i giochi sono competitivi, ciò non significa che essi non siano altrettanto cooperativi.
Nonostante si possa asserire con sicurezza che tutti i giochi sono competitivi, è egualmente vero che tutti i giochi sono cooperativi.
Queste due affermazioni sono contraddittorie? Tutti i giochi possono essere competitivi e cooperativi allo stesso tempo? I due termini non sono mutualmente esclusivi.
La radice della parola competere viene dal Latino cum petere, andare insieme verso qualcosa.

In che modo i giochi sono cooperativi? Giocare significa adeguare il proprio comportamento alle regole del gioco, entrare nello spazio e nel tempo che il gioco delimita, trafficare nei significati speciali che il gioco offre. Giocare significa partecipare ad un discorso con altri giocatori. Di conseguenza, giocare consiste nell’impiegare tutti insieme i significati artificiali del gioco. In questo senso, lo stesso atto di giocare insieme è un atto di cooperazione.

È solo attraverso lo sforzo condiviso dei giocatori che il fragile cerchio magico del gioco prende forma e resiste allo svolgersi del gioco.
È un meraviglioso paradosso.
All’interno del cerchio magico costruito per il gioco, all’interno dell’arena delimitata dalle regole, si svolge un conflitto. I giocatori cooperativamente formano lo spazio di gioco al fine di creare una competizione finalizzata al loro divertimento. Il conflitto diventa allora come un duello fra attori di una sceneggiata: è un elaborato artifizio in cui ci si può divertire proprio grazie alla sua artificiosità.
Nei giochi c’è del conflitto genuino, ma solo all’interno di una cornice di ampia cooperazione fra giocatori.

* Eric Zimmerman è una game designer e co-fondatore di GameLab. Ha insegnato in molte università americane, dal MIT alla Parsons School of Design e si occupa di giochi specialmente dal punto di vista accademico.
Katie Salen è laureata in graphic design alla Rhode Island School of Design ed è una specialista di animazione, oltre che un’educatrice. Attualmente insegna presso l’Università della California – Irvine. Si è occupata prevalentemente di giochi online e mobile.


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